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Diario di una operaia della danza appare come una lettura confidenziale e sonnambula, una traversata cronologicamente scassata, visionaria, mai assertiva, fra la carta di una serie di taccuini privati in cui hanno trovato riparo meditazioni e annotazioni consumate durante il processo creativo di produzioni coreografiche scritte da tre distinti autori: Marco D’Agostin, Michele Di Stefano, Alessandro Sciarroni.
I quaderni, graffiati dalla stesura di istruzioni tecniche e note drammaturgiche e dalle tracce dei languidi turbamenti e delle crudeli ossessioni di una danzatrice, custodiscono i deliziosi taciti contraddittori che erotizzano l’appassionante relazione fra autore e interprete. Un registro giornaliero che tenta di affondare le mani in una materia inesplicabile e traboccante di enigmi, una catena di montaggio dagli ingranaggi impalpabili in cui esplode abbagliante il valore del privilegio. Privilegiata appare l’interprete che può spiare, ammirata, l’indicibile creatività degli autori e trovare ricovero e consolazione nel loro irresistibile ingegno.
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