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Col suo innesto di jazz e musica classica, senza tralasciare una spruzzata di soundtracks, nel dna del cantautorato sui generis tipico di John De Leo, l’uscita de Il Grande Abarasse ha segnato il ritorno alla discografia del cantante-performer originario di Lugo, a sette anni di distanza dal precedente Vago svanendo. Vero e proprio concept album, Il Grande Abarasse è ambientato in un condominio nel quale a ogni appartamento corrisponde una canzone: vi si ascoltano dunque scene di vita vissute (o inventate che siano) tra litigi, amicizie, indifferenze personali, in un intreccio di relazioni a portata di citofono. Come sua abitudine, De Leo solleva il cantautorato italiano ben al di sopra di un collage di testi scarnamente armonizzati. La sua voce intanto è un camaleontico strumento musicale. Poi, alle sue spalle, agisce un ottetto dalla fantasmagorica strumentazione. Del resto De Leo ha ben pochi simili nel panorama canoro italiano; lo si può piuttosto considerare un erede delle sperimentazioni vocali di un Demetrio Stratos o di una Cathy Berberian. Questa unicità è sempre stata evidente nella sua carriera, segnata dalle collaborazioni, non solamente musicali, con Stewart Copeland, Uri Caine, Louis Andriessen, Trilok Gurtu, Stefano Benni, Banco del Mutuo Soccorso, Carlo Lucarelli, Stefano Bollani, Paolo Fresu, Franco Battiato, Enrico Rava, Ivano Fossati, Alessandro Bergonzoni e tanti altri. Senza dimenticare i Quintorigo, di cui fu co-fondatore e voce dal 1992 al 2004.